Un principe chiamato Aquilino, che aveva vent’anni e voleva condurre in moglie la più bella principessa del mondo. Pubblicò un bando di nozze e giunsero centinaia di ritratti, ch’egli fece esporre nelle gallerie del castello; e là meditava sulle belle sorridenti dalle grandi cornici dorate. La scelta cadde su Nazzarena, principessa di Bikarìa, e per mezzo ad ambasciatori furono concertate le nozze. Nel castello di Aquilino si fecero grandi preparativi per la cerimonia e all’alba del giorno sospirato il principe era già sulla torre più alta, alle vedette. Il corteo doveva giungere tra poco; tra poco avrebbe visto per la prima volta quella bellezza famosa. Ma il corteo non giungeva. Si vide apparire una sola carrozza e ne scese un vecchietto gobbuto e barbuto. “Io sono il Re di Bikarìa. E questa è la mia figliuola Nazzarena che chiedete per moglie.” La principessa era nana, pallida, vizza, per nulla rassomigliante al ritratto della scelta. Il vecchietto se n’avvide. “La stanchezza del viaggio e l’emozione l’hanno sfinita. Si rimetterà e la ritroverete bella.” Aquilino voleva disdire le nozze, ma la parola era data e bisognava mantenerla. Chiese che la cerimonia fosse rimandata di due giorni e ospitò il vecchio e la figlia nel castello.
Al mattino seguente, per distrarsi dallo sconcerto e dalla delusione, uscì a caccia, solo, con una bella spingarda d’oro, costellata di gemme. Camminò per campi e prati, giunse in una foresta millenaria. Attraverso un sentiero gli apparve una lepre d’argento che brucava l’erba e lo guardava fisso, per nulla spaurita di lui. Il principe puntò l’arma e fece fuoco. Ma il fumo del fuoco si dissipò e la lepre riapparve al medesimo posto, incolume e tranquilla. Il principe s’avanzò. La lepre fuggì, si arrestò dopo un tratto, fissandolo coi suoi calmi occhi umani. Aquilino sparò ancora. Il fumo si dileguò e la lepre riapparve ancora calma ed intatta, seduta sulle sue zampe, un orecchio su e l’altro giù, con gli occhi supplichevoli, col muso palpitante, proteso verso di lui. Ma come il principe gettò l’arme e s’avanzò, essa dié un balzo e disparve fra i tronchi degli abeti. Aquilino restò perplesso. Si trattava di un malefizio. S’appoggiò al tronco d’un albero gigantesco, ripensando lo sguardo dolce della vittima invulnerabile. E gli parve di sentire dietro di sé, dall’interno del tronco, una eco lontana di musiche e di voci; si volse, fece il giro dell’albero: nessuno. Si riappoggiò al tronco. E riudì il suono e le voci. Picchiò la corteccia col pugno impaziente. La corteccia cigolò, s’aprì a due battenti, e al principe sbigottito apparve una scala abbagliante. Egli salì i primi scalini, trasognato, udì il colpo della porta che si chiudeva. Il palazzo era immenso. Le scale, gli atrii, i corridoi, le logge, le sale si succedevano senza fine, ricche di marmi, di porfido, di diaspro, di gemme. Aquilino s’avanzava trasognato.
Si faceva notte e nessuno appariva nel palazzo incantato. Solo due mani lo precedevano: l’una recando una lucerna, l’altra facendogli segno di seguirla. Giunsero così in una sala vastissima da pranzo; Aquilino si sedette a tavola. E le due mani cominciarono a recar cibi e vini prelibati. Egli guardava quelle due mani isolate, volanti, cercava di afferrarle quando le aveva vicine, ma quelle deponevano i piatti e guizzavano via come farfalle. Mangiò, poi si sentì prendere dal sonno, s’alzò per andare a dormire. Le due mani lo precedettero in una camera di damasco vermiglio, gli fecero un gesto d’addio e d’augurio, disparvero. Egli si cacciò fra le lenzuola fini, e si addormentò. Sognava di riveder la principessa Nazzarena, non quella condotta dal gobbo barbuto, ma quale gli era apparsa nel quadro, bellissima e bionda. Quand’ecco uno schiamazzo lo svegliò. Socchiuse gli occhi. La stanza era illuminata e molte paia di mani, eguali a quelle della sera prima, guizzavano, s’intrecciavano, accennando verso di lui. “A che giuoco si gioca?” “Alla palla.” “Giochiamo alla palla con quel tale che dorme?” “Chi dorme?” “Là, nel letto, non lo vedete?” E attraverso le ciglia socchiuse, il principe vide le mani avvicinarsi. Afferrarono le lenzuola e, tenendole tese agli orli, cominciarono a farlo sbalzare con risa rauche e sibili acuti. Egli teneva le ciglia chiuse, fingendo di dormire. “Non vuole svegliarsi!” “Lo sveglieremo! Lo sveglieremo!” E raddoppiarono la foga del gioco crudele. Al primo canto del gallo le mani lo sbalzarono nel letto e disparvero.
Aquilino si palpava le ossa indolenzite, quando udì un fruscio e si vide accanto la lepre d’argento. Invece delle quattro zampe aveva due piedi e due mani bianchissime di donna. “Principe Aquilino, io sono la principessa Nazzarena, quella che il vostro cuore scelse per compagna. Quando giunsi col mio corteo nel bosco, un mago mi trasformò, imprigionandomi con la mia gente in questo castello. Sarò salva se passerete qui dentro tre notti simili a questa. Il mago è quegli stesso che si presentò al vostro cospetto tentando di farvi sposare la sua nanerottola.” La lepre disparve. Aquilino attese ansioso la seconda sera. Mangiò, servito dalle due mani volanti, andò a letto, s’addormentò. Si svegliò allo schiamazzo: molte mani lo ripresero dal letto, sollevarono le lenzuola, cominciarono il gioco, più furenti della sera innanzi. “Non vuole svegliarsi!” “Se non si sveglia siamo perduti!…” Allora le mani lo sbalzarono un’ultima volta, appiccandolo a un chiodo delle travi. E disparvero sibilando. Aquilino aprì gli occhi, vide la lepre d’argento. Aveva ormai tutto il corpo di donna; solo la testa restava di lepre e lo guardava con dolci occhi umani. “Povero principe! Soffrite per amor mio ancora una notte e saremo salvi.” Giunse la terza notte. Riapparvero le mani più furiose che mai. “Si gioca?” “Giochiamo!” “Ma questa notte dobbiamo finirlo!” “Dobbiamo finirlo!” E cominciò il rimbalzello crudele. Aquilino giungeva al soffitto, picchiava, restava aderente come una tartina di pasta, ricadeva nel lenzuolo teso, rimbalzava ancora tra le risa infernali. E non apriva gli occhi per amor di Nazzarena. “Non si sveglia! Siamo perduti!” “Siamo perduti!” “È l’alba! Siamo perduti!” Le mani furibonde s’appressarono alla finestra, tesero le lenzuola, sbalzarono Aquilino ad un’altezza vertiginosa.
Egli salì, salì, cadde per dieci minuti, picchiò sull’erba, si tastò le ossa peste, aprì gli occhi, ancora vivo. Si trovava ai piedi dell’albero incantato. Presso di lui stava la sua vera fidanzata Nazzarena, bella di una bellezza mai più vista. E aveva il suo seguito di carrozze, di dame, di cavalieri liberati con lei dal malefizio del mago. Il principe li condusse al suo castello, adunò tutta la Corte nella sala del Gran Consiglio, fece condurre il gobbo barbuto e la figliuola laida, e rivoltosi ai ministri disse: “Avevo ordinato un cofano d’oro e di gemme; un malandrino me lo tolse strada facendo e lo sostituì con un altro di legno tarlato. Fortuna vuole che io ritrovi il primo. A quale darò la preferenza?” “Al primo!” sentenziò la Corte. “E del ladro e del cofano tarlato che dovrò farne?” “Bruciarli sulla stessa catasta!” Così fu fatto. E la sentenza e le nozze ebbero luogo fra gli applausi di tutto il popolo.