Un vecchio contadino che viveva in una povera capanna. Questo contadino aveva un figliuolo malaticcio, gobbo, distorto; e per colmo d’ironia questo figliuolo si chiamava Fortunato. Sui diciott’anni Fortunato decise di lasciare la capanna paterna e di mettersi alla ventura. Salutò il padre, che lo benedì piangendo; si fabbricò un paio nuovissimo di grucce scolpite e prese la via di levante, attraversò monti e pianure, patì la fame e la sete, in attesa sempre della fortuna. E la fortuna non veniva.
Un giorno, sul crepuscolo, s’attardò per un sentiero sconosciuto, in una foresta d’abeti. Camminava in fretta, per giungere prima di notte a qualche capanna dove riparare, e sentiva il cuore balzargli dal terrore alle prime grida degli uccelli notturni, al primo ululato dei lupi. Ad un tratto, tra la ramaglia e i tronchi diritti, gli parve di scorgere un chiarore tremulo: affrettò il passo sulle stampelle, giunse ad una capanna di legno, picchiò freddoloso. La porta si aprì: una vecchietta minuscola, curva, canuta, grinzosa, apparve nel vano, al chiarore del focolare. “Buona donna, mi sono perduto; accoglietemi per carità.” “Vieni avanti, figliuolo mio.” Fortunato entrò nel tepore della capanna. “Ti farò parte della mia cena; ti accontenterai di quel poco.” “Anche troppo, madre mia.” Si sedettero al desco. La vecchia pose in mezzo un piattello ed una ciotola minuscola, con una briciola e due chicchi di riso. Fortunato la guardava stupito. ‘ Non aveva torto ‘, pensava tra sé ‘ a dirmi che mi accontentassi del poco. ‘ Ma la vecchietta fece un segno imperioso con la mano destra: ed ecco la briciola crescere, crescere, prendere la forma d’un passero, d’un colombo, d’un pollo, d’un tacchino arrostito, dagli appetitosi riflessi d’oro. Ed ecco la ciotola crescere, convertirsi in una zuppiera elegante, dove fumigava una minestra dal soave profumo. Fortunato credeva di sognare. Mangiò con appetito, meravigliato di sentire sotto i denti quei cibi creati dall’arte magica. E guardava di sott’occhi l’ospite misteriosa. Dopo cena la vecchietta fece sedere Fortunato presso gli alari, sotto la cappa del camino, e gli si accoccolò di contro. “Figliuolo, raccontami la tua storia.” Fortunato le disse delle sue vicende e del suo vano pellegrinare in cerca di fortuna. “Aiutatemi voi, che dovete essere una fata potente.” “Io non sono una fata potente e i miei incantesimi sono pochi… Ti gioverò confidandoti un segreto che tutti ignorano. Ti indicherò la via che conduce al castello dei desideri…
All’alba del domani la vecchietta accompagnò Fortunato attraverso i boschi, si fermò ad un crocevia, e gli indicò la strada da scegliere. “Cammina tre giorni e tre notti senza voltarti indietro, qualunque cosa tu senta. Da secoli nessuno osa affrontare il mistero di quelle mura. Picchierai con questa pietra alla gran porta, che s’aprirà per incanto. Attraverserai cortili e stanze, androni e corridoi. Nell’ultima stanza troverai un vecchio addormentato in piedi, con il braccio teso, recante fra le dita un cero verde; è quello il talismano che tu devi carpire e che esaudirà ogni tuo desiderio. Bada che il castello è pieno di frodi magiche e di orrori diabolici. Ma il negromante, i draghi, gli spiriti si addormenteranno dal mezzogiorno al tocco. Se tu ti fermassi scoccato il tocco, saresti perduto…” Fortunato prese la pietra, ringraziò la vecchia e proseguì la strada sulle sue stampelle.
Verso sera si sentì chiamare alle spalle: “Fortunato! Fortunato! Fortunato!” Non ricordò l’avvertimento della vecchia e si voltò. Ed eccolo ricondotto d’improvviso al punto donde era partito. “Pazienza, ricomincerò.” “Mi ammazzano! Aiuto! Giovine, per carità!” Si voltò impietosito, ed eccolo ricondotto al punto di partenza. Ebbe un moto d’ira, poi riprese pazientemente il cammino sulle sue stampelle.
Camminò due giorni: al tramonto del secondo giorno sentì un fragore d’armi, uno scalpitìo di cavalli; si voltò impaurito ed eccolo ricondotto al crocevia di partenza. “Sono inganni che mi tende il negromante; ma saprò come fare.” E si turò le orecchie con batuffoli di stoppa e proseguì tranquillo la strada, sordo ai richiami. Dopo tre giorni giunse al castello disabitato. Attese lo scoccare delle dodici e picchiò con la pietra. La porta immensa, scolpita a disegni favolosi, s’aprì per incanto. Fortunato indietreggiò, inorridito. Aveva innanzi un cortile pieno di salamandre gigantesche, di rospi, di vipere, di scorpioni colossali. Ma tutti dormivano e Fortunato si fece animo, passò con le stampelle tra i dorsi viscidi, le code, le corazze, i tentacoli inerti. Attraversò cortili, androni, corridoi, giunse ad una sala tutta coperta di monete d’argento: si chinò e se ne empì le tasche. Giunse ad una seconda sala piena di monete d’oro: si chinò, gettò le monete d’argento e raccolse le monete d’oro. Giunse ad una terza sala, ingombra di alte piramidi di gemme: vuotò le tasche dell’oro e le empì di brillanti. Attraversò altri cortili, altri corridoi, giunse in un’ultima sala immensa ed oscura. Il negromante decrepito, dalla barba lunga e candida, dormiva in piedi, recando nella mano protesa il cero verde. Fortunato lo guardava stupito, guardava stupito le mille cose del laboratorio diabolico. Poi si sovvenne del tempo che passava, tolse il cero di mano al negromante, ritornò indietro di corsa, si smarrì pei corridoi… Il tocco doveva essere imminente e s’egli non usciva prima, era perduto… Ritrovò finalmente le sale dei diamanti, dell’oro, dell’argento, attraversò il cortile delle belve addormentate, passò colle sue stampelle tra i dorsi e le code viscide, raggiunse la porta immensa. I battenti si rinchiusero alle sue spalle, con fragore sordo.
Il tocco suonò nell’istante. Un clamore spaventoso s’alzò dietro le mura del castello: gracidii, urla roche e furenti; erano i mostri guardiani che s’accorgevano del furto. Ma Fortunato era salvo. Subito accese il cero e comandò: “Mi sparisca la gobba, mi si raddrizzino le gambe!” E la gobba disparve e le gambe si raddrizzarono. Fortunato gettò via le grucce, spense il cero, perché consumava rapidamente, e si diresse alla città. Giunse in città a notte fatta, scelse un’altura spaziosa e vi comandò un palazzo più bello di quello reale. All’alba i cittadini guardarono trasecolati l’edificio meraviglioso, le sue torri, le logge, le scalee, i terrazzi, gli orti pensili fioriti in una sola notte. Fortunato stava ad un balcone, vestito da gran signore. Il Re, ch’era un tiranno malvagio, arse di sdegno e d’invidia per l’ignoto forestiero e gli mandò un valletto intimandogli di recarsi a Corte. “Direte al Re che non m’inchino a nessuno. Se crede bene venga lui da me.” Il Re fece decapitare il valletto che ritornò con tale risposta, e giurò odio eterno al forestiero misterioso.
Fortunato viveva la vita del gran signore, eclissando con lo sfoggio delle vesti, delle cavalcature, dei levrieri la magnificenza della Corte Reale. Gli bastava accendere pochi secondi il cero verde e subito ogni suo desiderio era appagato. Ma intanto il cero s’accorciava sempre più e Fortunato cominciava ad inquietarsi e a diradare i comandi. E non era felice. Sentiva che una cosa gli mancava e non sapeva quale.
Un giorno, cavalcando per la città, vide ad una loggia della reggia la figlia unica del Re. La principessa sembrava sorridergli benevola, ma era circondata dalle dame e guardata a vista dai paggi e dai cavalieri. Il giorno dopo Fortunato passò ancora sotto la loggia e rivide la principessa fra le sue donne accennargli un sorriso compiacente. Fortunato s’innamorò perdutamente di lei. Una sera di plenilunio egli stava sul più alto dei suoi giardini pensili, appoggiato ai balaustri che dominavano la città. “Forse il cero potrebbe appagarmi anche in questo…” E meditò a lungo come esprimere il suo desiderio. “Cero, bel cero, voglio che la principessa sia fatta invisibile e venga trasportata all’istante nel mio giardino.” Fortunato attese col cuore che gli palpitava forte… Ed ecco apparire la figlia del Re, vestita di una tunica bianca e con le chiome scomposte. “Aiuto! Aiuto! Dove sono? Chi siete voi?” La principessa tremava, folle di terrore. Si era sentita sollevare dal suo letto, trasportare a volo attraverso lo spazio. Fortunato s’inginocchiò, baciandole il lembo della tunica. “Sono il cavaliere che passa ogni giorno sotto i vostri balconi, principessa, e se vi feci trasportare qui, non è con fine malvagio, ma per potervi umilmente parlare”. E Fortunato le dichiarò il suo amore e le disse che voleva presentarsi al Re per chiederla in isposa. “Non fate questo! Mio padre vi odia perché siete più potente di lui. Se vi presentate vi farebbe uccidere all’istante.”
Dopo quella sera Fortunato faceva convenire sovente sui suoi terrazzi la principessa Nazzarena. Essa appariva al richiamo dello sposo, non più pallida e tremante, ma sorridendo, improvvisa come un’apparizione celeste. Passeggiavano sotto i palmizi, fra le rose e i gelsomini, e guardavano la città addormentata. All’alba Fortunato comandava al cero verde di trasportare la principessa nelle sue stanze e questa si ritrovava, pochi attimi dopo, nel suo letto d’alabastro. Ma un’ancella malevola si era accorta di queste assenze notturne e riferì la cosa al Re. “Se non è vero ti faccio appiccare” aveva detto il Sovrano minaccioso. “Sacra Corona, potete accertarvene con gli occhi vostri.”
La sera dopo il Re si nascose dietro i cortinaggi, spiando la figlia addormentata. Ed ecco, verso la mezzanotte, una voce remotissima che dice: “Cero, bel cero, portami Nazzarena!” Ed ecco la figlia farsi invisibile e la finestra aprirsi per incantesimo. Il Re era furente. E quando all’alba Nazzarena riapparve dormendo nel suo letto, il padre l’afferrò per le trecce d’oro: “Dove sei stata, disgraziata?” “Nel mio letto. Ho dormito tutta notte, padre mio.” Il Re si calmò. “Allora si tratta di un malefizio che tu stessa ignori e che saprò bene scoprire.” Si consigliò con un negromante. Questi consultò invano la sua scienza profonda. “Non c’è che un solo espediente, Sacra Corona. Appendete alle vesti della principessa Nazzarena una borsa forata piena di farina: all’alba scopriremo la traccia del suo cammino. Con l’aiuto della fantesca fu appesa alla tunica notturna della principessa la borsa forata piena di farina. All’alba il Re armò tutto il suo esercito e con la spada in pugno seguì la sottile traccia candida… E la traccia lo condusse al palazzo del forestiero misterioso. Irruppe nelle stanze di Fortunato che dormiva. Prima che questi potesse ricorrere al cero salvatore, lo fece legare, trasportare al palazzo reale, rinchiudere nei sotterranei, per decretarne la pena. Fu condannato a morte e il giorno del supplizio tutto il popolo s’accalcava sulla gran piazza. Ai balconi del palazzo reale stava tutta la Corte, col Re, la Regina, la principessa pallida e disperata.
Fortunato salì tranquillo il palco del supplizio. Il carnefice gli disse: “Com’è usanza nel regno, potete esprimere a Sua Maestà un ultimo desiderio.” “Chiedo soltanto mi sia recato un piccolo cero verde, che ho dimenticato a palazzo, in un cofano d’avorio. È un caro ricordo e vorrei baciarlo prima di morire.” “Gli sia concesso” disse il Re. Un valletto ritornò col cofano d’avorio e, fra l’attenzione di tutto il popolo, Fortunato trasse il cero verde, lo accese mormorando: “Cero, bel cero, che tutti i qui presenti, che tutti i sudditi del regno, eccezion fatta della principessa, sprofondino in terra fino al mento.” Ed ecco la folla, la Corte, il Re, la regina, inabissarsi d’improvviso. La piazza e le vie della città apparivano coperte di teste che stralunavano gli occhi e invocavano aiuto. Fortunato distinse fra le innumerevoli teste brune, bionde, calve, canute, la testa coronata del Re che rotava gli occhi a destra e a sinistra e ordinava imperiosamente d’essere dissepolto. Ma in tutto il regno non era rimasto in piedi un suddito solo! Fortunato prese Nazzarena al braccio e s’appressò alla testa regale. “Maestà, ho l’onore di chiedervi la mano della principessa Nazzarena.” Il Re guardò Fortunato con occhi irosi e non fece motto. “Se tacete, partirò oggi stesso con lei e lascerò voi e i vostri sudditi sepolti fino al mento.” Il Re guardò Fortunato, lo vide giovine e bello, pensò che era più potente di lui, e che sarebbe stato un buon successore. “Maestà, vi chiedo la mano di Nazzarena.” “Vi sia concessa” sospirò il re. “Parola di Re?” “Parola di Re.”
Fortunato comandò al cero il disseppellimento di tutti e tutti risorsero per incanto… E nel giorno stesso, invece della condanna feroce, furono celebrate le nozze.